(Non) l’avevo detto

Roberto Beccantini20 febbraio 2013

Nel baseball, si parla di «partita perfetta» quando il lanciatore vince senza concedere basi su ball e battute valide, e senza che lui o i suoi compagni commettano errori. Nella storia del Milan, la «partita perfetta» è stata questa di San Siro, due gol a zero al Barcellona e, soprattutto, zero tiri in porta subìti, zero palle-gol concesse. Se la rete di Boateng – che il sottoscritto avrebbe annullato per il braccio alto di Zapata – è stata casuale, il raddoppio di Muntari è stato il suggello di una splendida azione Niang-El Shaarawy.

Complimentissimi ad Allegri. Non ha dato retta al suo padrone (Messi marcato «a uomini», non «a uomo»), ha ostruito gli spazi e presidiato i valichi, mirando, in contropiede, al bersaglio grosso. Al Diavolo la palla, al Barcellona il possesso palla: tutta qui, la differenza.

Quando Abbiati finisce senza voto e Messi con quattro in pagella, significa che il calcio è proprio un mistero senza fine bello (Gianni Brera). I confini sono stati così netti, così profondi, che riesce difficile pesare i meriti del Milan sulla bilancia del Barcellona e viceversa, il fumo catalano sull’arrosto rossonero. Il mio pronostico era: Milan 40%, Barcellona 60%. Una deduzione sorge spontanea: col cavolo che il Barcellona è «anche» Messi; il Barcellona è «soprattutto» Messi. La sua corsa ai record ha allontanato la squadra dalla ricerca di soluzioni alternative. Il catenaccio mobile di Allegri ha imprigionato il divino e sterilizzato i mortali, i cui muscoli di latta hanno sollevato quintali di noia.

Al Camp Nou farà caldo comunque. Da oggi, il pronostico gonfia le vele del Milan che però a Londra, contro l’Arsenal, rischiò di sperperare addirittura un 4-0. Se lo ricordi. Campione nel 2009 e 2011, semifinalista nel 2010 e 2012, il Barcellona sembra proprio sfinito, più che finito. A meno che Messi. Già, ma quale?

Diverso, sì. Migliore, boh

Roberto Beccantini19 febbraio 2013

Serve una rivoluzione culturale. Più scuola e meno droga. Sono frasi che sento a ogni elezione. Le pronunciano tutti, quando conviene: poi, quando servirebbero… Le ha pronunciate anche il nuovo presidente del Coni, Giovanni Malagò. Gli esperti hanno parlato di «grande sorpresa». Il favorito era Raffaele «Lello» Pagnozzi, segretario generale da un ventennio e braccio destro dell’ex papa Gianni Petrucci, tornato a dirigere la Federbasket dalla quale era partito per ascendere al vertice del Coni dal quale è sceso per bla-bla-bla.

Non conosco Malagò. Tifa Roma e tifa Totti. Gira la battuta che sia presidente del Circolo Canottieri Aniene e dipendente del circolo Montezemolo. Stiamo freschi. In teoria, costituisce un segno di cambiamento: da un lato, il «nuovo»; dall’altro la vecchia P2 (Petrucci-Pagnozzi). E’ un rischio che si può correre. Se non altro, per vedere l’effetto che fa. La missione non riguarda lo sport d’élite, ma coinvolge lo sport «vero», problema che in un Paese nel quale si vendono più giornalisti che giornali nessuno ha mai risolto. Anche perché spesso noi giornalisti abbiamo esercitato una critica blanda, ruffiana, complice.

I candidati erano almeno due. Non uno, come in Figc: 40 a 35 contro il 94,34% di Giancarlo Abete. Malagò è nato il 13 marzo 1959: un «giovanotto», rispetto alle medie correnti. Il pezzo forte restano i Mondiali di nuoto, voluti e organizzati a Roma nel 2009. A gare finite, ci furono inchieste giudiziarie su presunti abusi edilizi e mazzette. Tra gli indagati, anche il neo-eletto, poi assolto «perché il fatto non sussiste».

Le prime parole famose: le medaglie olimpiche saranno le ciliegine, non la torta. Sentita pure questa (un po’ meno, a essere sinceri). Non nutro molta fiducia nei dirigenti dello sport italiano. Sotto a chi tocca.

Spompati

Roberto Beccantini16 febbraio 2013

La Champions costa, e come. Dal 3-0 al Chelsea allo 0-1 di San Siro con il Milan. Dal 3-0 al Celtic allo 0-1 dell’Olimpico con la Roma (che nel 2013, in campionato, non aveva ancora vinto). Sono indizi concreti, non semplici coincidenze. Ha deciso una sassata di capitan Totti, in avvio di ripresa, quando la partita stava scappando dagli sbadigli della Juventus. Conte aveva limitato il turnover agli squalificati Marchisio e Peluso, i campioni non sono riusciti a cambiare marcia: mai, nemmeno quando gli avversari mascheravano la paura con l’irruenza (De Rossi su Lichtsteiner, Totti su Pirlo).

Gli acrobati spericolati di Zeman non esistono più. Andreazzoli si è chiuso a chiave per un tempo, e poi ha sguinzagliato, a turno, gli Osvaldo e i Lamela, i Pjanic e i Totti. Ho visto una Juventus brutta, sterile, sgonfia: una punizione di Pirlo e basta, Troppe volte in fuorigioco, e fuori dal gioco, Matri e Vucinic. Da turista, il passo di Vidal. Senza esito gli ingressi di Giovinco e Anelka, impalpabile il trasloco dal 3-5-2 al 4-3-3.

I gol di Totti sono, così, 224: gliene manca uno per raggiungere Nordahl. Chapeau. La Roma è stata squadra e, nel caso specifico, più squadra della capolista, alla quarta sconfitta. Tra i grandi d’Europa, il nostro campionato resta il più incerto. Il Milan è già salito a meno undici, il Napoli può arrivare a meno due. Di solito, i successi fanno morale. Non sempre, evidentemente. Era una Juventus, addirittura, più spompata e grigia di quella del 25 novembre «milanista».

In vista del faccia a faccia di venerdì 1° marzo, il Napoli potrà dedicarsi solo alla volata-scudetto, la Juventus no, la Juventus deve sdoppiarsi. Se è vero che Conte ha domandato ai giocatori chi se la sentiva e chi no, non sono d’accordo. L’allenatore è lui; e l’allenatore sceglie, non chiede.